venerdì 25 marzo 2011

LE PAROLE DEL FUMETTO


di Antonino Rocca

Piccole riflessioni.. Sono tutte “parole disegnate” che hanno lo stesso valore delle “figure disegnate”; il loro “posto” il loro “peso”è determinante per il destino dell’intero racconto figurato. Devono avere una dimensione, uno stile grafico e una collocazione spaziale non casuale (errore frequentissimo nei fumetti dei principianti o di quelli distratti) ma coerenti con quelli dell’intera vignetta, e infine devono essere “espressive” della situazione in cui sono impiegate.

Le DIDASCALIE corrispondono di norma a quella che nel cinema si chiama “voce fuori campo”,spiegano descrivono, puntualizzano le situazioni illustrate. Storicamente le Didascalie hanno preceduto e dominato le nuvolette. All’inizio apparve (e in buona misura appare tutt’ora, tanto da essere oggetto di continue spericolate sperimentazioni) un problema piuttosto impegnativo mettere insieme in maniera coerente i personaggi e le parole ; si trattava di inventare una convenzione, di collaudare un tipo di racconto ibrido che rovesciava il sistema del racconto illustrato nella “illustrazione raccontata”, fatta di molte figure e poche parole.

Per questo, nei primissimi fumetti le sole parole usate furono quelle delle didascalie, collocate peraltro fuori dalla vignetta, in calce ad essa, a spiegarne il senso, riportando fra virgolette le parole pronunciate dai singoli personaggi. (in sostanza con la stessa funzione che didascalie avevano nel cinema muto).Peraltro anche dopo l’uso dei balloons, un grande fumettista americano come Harold Foster preferì tornare alle didascalie , anche se sistemate all’interno della vignetta, per non guastare la bellezza grafica

dei suoi Tarzan, e Prince Valiant, allo stesso espediente ricorreva Alex Raymond col suo Flash Gordon. Ma ancora oggi capita di trovare didascalie adoperate in maniera inusuale, in sostituzione del balloon, per esempio, quando si vuole raccontare facendo ricorso soltanto alla voce fuori campo o alle frasi “pensate” dal protagonista, o da uno dei personaggi che fa da voce narrante “in campo”, come accade in Will Eisner o nei racconti di Frank Miller che , come spari nel buio, fa emergere dal fondo scuro piccoli riquadri bianchi riempiti da brevissime frasi di commento alle situazioni immancabilmente gravide di nere tensioni.

I FUMETTI (come “balloons”) assai più delle didascalie sono state oggetto, nel tempo, di svariate quanto originali manipolazioni. (Paradossale la trovata di Yellow Kid , creato da R.F. Outcault, che parlava scrivendo le frasi sul suo camicione giallo).

Fra i nostri artisti contemporanei, vi è stato chi (come Moebius) ha addirittura rinunciato in varie occasioni all’uso dei balloons, ritenendo che il racconto illustrato stesso, da solo, per “come” era illustrato fosse sufficientemente “parlante”.

Si pone (si è sempre posto) comunque un problema principe:come evitare che il balloon si avverta come un “buco” (buco ch’è ancora più rischioso nel fumetto a colori per il contrasto forte fra la scritta su fondo bianco e il contesto cromatico che crea problemi maggiori rispetto alla più unitaria realtà del bianco-nero). Il fumettista allora ha cominciato a prestare maggiore attenzione alla collocazione spaziale del balloon all’interno della scenetta e alla forma e alla grafia della “cornice” e delle parole. All’inizio i patti erano solo tre: cornice continua: le frasi sono dette ad alta voce; linea di cornice tratteggiata: le parole sono dette sottovoce; linea a circoletti, a sbuffi di fumo: le parole sono solo pensate. Lo stile delle parole: era sufficiente che fossero leggibili. Poi sono cominciate le trasgressioni: della linea di cornice e del suo contenuto.

Che sono diventati non solo dichiarativi ma fortemente “espressivi” e il balloon è diventato sempre più disegno, nei casi più riusciti: anch’esso “figura”.( Esemplare, a tal proposito, la metamorfosi grafica inventata da Toppi nel suo “Myetzko” nel momento in cui la frase del fumetto si trasforma nella “cosa” di cui essa parla: nella sequenza di sette vignette, letteralmente, la parola diventa figura, personaggio).

A fini espressivi infatti, a seconda degli umori di chi “parla”, della drammaticità della situazione, il profilo delle le nuvolette esplode di rabbia in artigli aguzzi, o si frantuma, fuori di se, in bordi frastagliati, o dilata e si scurisce se sta gridando, o si allarga a dismisura attorno ad una sola parola a caratteri tondi e sottili se si sente abbandonata, chè anche i caratteri delle parole che stanno dentro il fumetto si deformano, piangono, gridano, si impauriscono assieme ai personaggi e ai loro travagli interiori ed esteriori, in una perfetta orchestrazione di segni.

Come di solito abbiamo scelto da un catalogo infinito un piccolo compendio di “parole” come invito al lettore a vedere con maggiore attenzione e gustare di più l’arte del fumetto

Volendo tuttavia sottolineare alcuni casi esemplificativi non possiamo non citare alcune soluzioni del nostro vecchio amatissimo Sergio Toppi, laddove, ad esempio allunga la codina dei balloons

come uno stelo floreale liberty e distribuisce i vari “buchi bianchi e rotondi” con un gusto decorativo inarrivabile, fino a farli diventare indispensabili protagonisti delle sue magistrali pagine in bianco-nero: e i buchi si riempiono di senso.

In altri casi, intenzionalmente la nuvoletta si vuole che funzioni come buco bianco su fondo nero a fini espressivi e decorativi, accade, ad esempio, su HellSpawn disegnato da Ashley Wodd ( piccole efficacissime cascate di buchi cadono giù lungo la pagina) e nei fumetti di Frank Miller.

Poi ci sono le nuvole liquide di Guido Crepax, quelle uncinate di Simon Bisley nel suo Giudizio su Gotham, quelle gelide stagliate da Vittorio Giardino e da tutti i fumettisti “chiaristi” che affidano al disegno lineare chiaro e pulito la loro maniera. Insomma a seconda dello stile ogni fumettista inventa i suoi balloons.

Ma fra tutte le parole disegnate quelle più ricche di invenzioni sono le ONOMATOPEE, le parole rumorose. Dapprima fu solo bang e zip, qualche gulp e smac, poi è venuto tutto il resto, col contributo determinante dei mangaka.

Il vecchio BANG era già esplosivo nelle bombe di Toppi che disegnava l’onomatopea facendo coincidere il profilo e la dimensione di ogni carattere alle schegge dell’eplosione, così la parola non solo letteralmente ma anche come figura, come disegno, scoppiava.

Ma poi al vecchio Bang hanno fatto seguito i vati Crack. Blam, Budda-Budda (la divinità della pace universale !) tarattattarattattatta takka takka eccetera eccetera, a seconda della possanza e della terribilità delle armi usate, così letali da riempire in serrati confronti grafici arrabbiatissime pagine intere, in primissimo piano, più importanti dei personaggi.

Pochi o nulli gli Smac sostituiti da più significativi silenzi o dai mugugni incredibili scritti dai giapponesi - insuperabili inventori di tutti quegli infiniti rumori che nessuna fantasia futurista avrebbe mai immaginato - e dai loro seguaci americani. Suoni strepiti sparatorie a non finire: ad ogni pagina scoppia la santabarbara. O tempora! Oh rumores !

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