mercoledì 27 aprile 2011

Il fumetto e il pulp

di Antonino R0cca

Pulp = polpa, detto di carta scadente, non raffinata, ancora allo stato polposo com’è la poltiglia acquosa di materiali vegetali misti a stracci che vengono adoperati per la produzione dei fogli di carta. Carta ultraeconomica per la stampa di pubblicazioni popolari (racconti d’avventure e simili) e che si andava sbriciolando con l’uso. Carta scadente per una letteratura scadente destinata ad un pubblico “scadente”, appena in grado di leggere. Il termine è stato usato per indicare un genere letterario popolare in voga nell’america di fine 800 - prima metà del 900: le pulp magazines, rivistine da quattro soldi che raccontavano di intrighi e innamoramenti, baci e coltellate e che per attrarre un pubblico in gran parte povero e depresso tendeva a forzare la mano alla morale corrente e caratterizzarsi per tematiche violente e audacemente erotiche.

Questo “stile” da letteratura usa e getta non poteva non influenzare anche il cinema, il cinema di seconda mano, quello dei B-Movie, pane a buon mercato per gli affilati denti di Quentin Tarantino che risuscita il “genere”, negli anni ’90, ma per giubilarlo, riproponendolo in versione “canonica” con “Le Iene” e in un geniale farsesco smontaggio e rimontaggio in “Pulp Fiction”, dove il grottesco e l’ironia distruggono dall’interno la tipica anima pulp, terribilmente seria nella sua cruenta debordante violenza.

Il racconto pulp non poteva non incuriosire le culture dei paesi europei. E, da noi, ha trovato una sua versione nel cinema dei vari Fulci, Lenzi, Avallove, Bava, Di Leo, Castellari… sbiadendo nella commedia sboccata all’italiana rappresentata dai films della Fenech e di Lino Banfi.

E ha frequentato quel settore della letteratura illustrata popolare che va dalle novelle illustrate, ai fotoromanzi, ai fumetti. Perché c’è stato un genere di fumetto pulp italiano ricco di titoli prestigiosi e indimenticabili: Wampus, Oltretomba, Lucifera, Terror, Satanik, Corna vissute, Incubi, Ulula, etcetera,etcetera, il cui contenuto è troppo facile immaginare ma che è stato in qualche misura testimone di un certo (discutibile) gusto di casa nostra e ha avuto qualche merito nel dare campo libero alle prime esperienze di disegnatori giovani e ancora sconosciuti e successivamente accolti su più prestigiosi scenari.

Più da recente un’ interessante ripresa del “genere” è avvenuta in letteratura ad opera della “gioventù cannibale”, un gruppo di giovani scrittori presentati da Einaudi nel 1996: Ammaniti, Nove, Santacroce e compagni con i loro racconti estremi: ironici, truculenti, disturbanti, infarciti di tutti i luoghi comuni raccolti nelle pattumiere di tutti i media inj circolazione.

E con almeno un film abbastanza pulp: “L’ultimo capodanno” di Marco Risi (1998) basato su “L’ultimo capodanno dell’umanità” di Ammaniti e ottimamente raffazzonato alla maniera tarantiniana: gli episodi ad incastro, il grottesco, il volgare, il surreale, il farsesco esasperato fino alla conclusiva fine del mondo con l’esplosione del “comprensorio delle Isole”, com’era denominato il complesso condominiale abitato dai personaggi reinventati da Risi e governato dalla portiera Iva Zanicchi.

Ogni tanto il fiume carsico del pulp riappare, il “Grand Hotel ha cambiato grafica ma resiste, spunta anche qualche rivista splatter e ogni tanto Tarantino si rifà il verso da solo.

Ma Satanik, Kriminal, Zora, Zakimort, Messalina e tutta la stramba corte dei fumetti in libera uscita fra gli anni 60 e gli 80 sono diventati quasi introvabili, curiosa archeologia letteraria per collezionisti di modernariato .

sabato 23 aprile 2011

Buona Pasqua da Fumetti al cubo

Questi sono strani giorni amici miei, e dire strani e poco. Pasqua è dunque arrivata e noi ci fermeremo per qualche giorno, diretti chissà dove. Torneremo dopo il 26 Aprile e stiamo preparando nuovissime sorprese per tutti.

F3 e tutto il suo staff approfitta di questa occasione per fare a tutti voi gli auguri di buona pasqua (sopratutto ai nuovi arrivati che vivono questi giorni per la prima volta, oltre che naturalmente a tutti coloro che li "vivranno" purtroppo per l'ultima volta ).

Auguri a tutti per una nuova rinascita verso un nuovo mondo.

F3 staff

giovedì 21 aprile 2011

Il fumetto e le arti.

di Antonino RoccaViene subito in mente Roy Lichtenstein e il suo “modo” di trattare il fumetto.Un fumetto letteralmente fatto a pezzi,(grandi, piccoli, piccolissimi “microscopici”) non solo perché staccando dalla striscia la singola vignetta, distrugge la logica narrativa del fumetto (ch’è racconto sequenziale ,continuo), ma anche perché del fumetto gli interessa di più analizzare la struttura tecnica che lo “sostiene”, sicché, procedendo per successive dilatazioni e penetrazioni, (ché più si accentua l’ingrandimento di un’immagine più essa si sgrana e porta allo scoperto gli elementi primari che la strutturano), scopre le linee e i puntini del retinato. Portato alla luce il genoma del fumetto si tratterà di applicare il metodo del retinato molecolare con il rigore, il distacco e la freddezza sentimentale di una macchina. Inventa così un nuovo puntinismo astratto e ripassando la storia dell’arte sotto il rullo compressore della nuova macchina retinatrice toglie ogni aura ai capolavori della pittura contemporanea, mentre li ripropone nella veste estetica degna della reclame di un supermercato, scombinando l’ormai consolidata abitudine percettiva del pubblico che non aveva mai visto così un’opera d’arte, che non aveva mai visto così un cartellone pubblicitario.

Di fumetto come modello tipico di una cultura di massa da rielaborare si erano occupati qualche anno prima anche i Situazionisti ma con intenti più politici che estetici. Lo scopo era quello di sovvertire di deturnare (detourner = deviare, da cui l’agghiacciante italianizzazione “deturnante”, “deturnato”) il senso comunemente attribuito ai segni e ai comportamenti massificati, creando situazioni insolite, anticonvenzionali, liberanti, quindi capaci di sollecitare una visione critica della vita quotidiana e dei media che la affliggono. Fra questi media c’è il fumetto e il modo situazionista di usarlo sovvertendolo consiste nello scegliere vignette o intere “strisce” che per i personaggi o le scene rappresentate siano in grado di acquisire un senso nuovo e provocatorio nel momento in cui le parole contenute nel balloon vengono sostituite da slogans situazionisti.

Certa affinità con la struttura dei comics hanno poi le opere di artisti contemporanei che assumono nei loro quadri modalità costruttive o espressive proprie del fumetto. E i modi sono innumerevoli

David Salle,,ad esempio, esponente del neoespressionismo americano, ricorre ad un sistema di sovrapposizione e giustapposizioni di riquadri, vignette, immagini spesso copiate da riviste o giornali che si richiamano ai sistemi compositivi dei fumettisti (che, per parte loro, hanno da tempo superato il tradizionale sistema ellittico della sequenza vignetta-cornicetta bianca-altra vignetta, a vantaggio di combinazioni estremamente più libere ed arbitrarie)

Il sudafricano William Kentridge, invece, per la preparazione dei suoi “Drawings for projection”disegna in sequenza moltissime vignette (ognuna di per sé già godibile come opera grafica autonoma) sviluppando una sorta di story board “dinamico”per i suoi films animati.

Altri segni fumettistici (ma il campo d’indagine a questo punto potrebbe diventare infinito) troviamo nelle composizioni di Basquiat, Haring e i Graffitisti, o nei quadri manifesto di Barbara Kruger o nelle recenti opere grafiche della “Beehive Design Collective” gruppo americano di graphic artists del Maine che vogliono denunciare (raccontando l’aggressione e la resistenza viste da un insetto) le repressioni operate nei paesi del Sud-America.

Nelle opere di questi artisti capita di scoprire delle vere e proprie “scene piene di racconto”, momenti molto intensi, vignette come “scene-madri” di una storia che non può non avere un prima e un dopo. Così, anche il palermitano Bazan dipinge spesso vere e proprie “scene avventurose”, che sembrano tratte da fotogrammi cinematografici o da brani ritagliati da una graphic novel

Dall’altro versante, ci sono molti fumettisti o fumettisti illustratori che si ispirano all’arte contemporanea (la pittura soprattutto) riprendendone certe cifre stilistiche o inserendo nei loro racconti citazioni di opere di artisti famosi. Fra i primi, raffinatissimi esempi, il “Little Nemo” stile Liberty di Winsor Mc Cay, fra i più recenti i lavori del fumettista americano ( pressochè sconosciuto in Italia) Jeffry Jones che inserisce fra le sue illustrazioni citazioni che vanno dalla pittura vittoriana a Klimt a Bocklin

Venendo ai Nostri, inevitabile il richiamo al Poema a Fumetti di Dino Buzzati, singolarissimo ibrido di liriche didascalie e figure riprese (e assai rivisitate) dai più vari panorami artistici,per raccontare di nuovo il mito di Orfeo ed Euridice. Poi, nella folta schiera dei fumettisti e illustratori-fumettisti, (poiché siamo costretti a scelte essenziali) preferiamo ricordare il vecchio Sergio Toppi e il suo evidente interesse per il nouveau del secessionismo viennese, il più giovane e geniale Lorenzo Mattotti e il suo furente espressionismo spinto fino all’astrazione nei suoi straordinari “Fuochi”,e Gipi (Gianni Pacinotti) esponente di quella schiera di fumettisti che sono in varia misura debitori del disegno “sgrammaticato” di Mattotti e hanno elaborato personalissimi stili “espressionisti” (come Marco Ficarra o Andrea Bruno).

Un posto a parte spetta a Guido Crepax, un grande artista che ha innovato e portato a livelli assai alti il fumetto d’autore. Crepax ha destrutturato profondamente il sistema-fumetto, mandando in frantumi la tradizionale pagina disegnata per ricomporre poi i suoi frammenti con la casualità ragionata e armoniosa propria della musica jazz . Il suo inconfondibile segno malgrado certi riferimenti alla pittura dell’americano Ben Shan, rimane personalissimo. La sua maniera di disegnare apparentemente dimessa con quel suo pennino spuntato che traccia profili sottili e disarticolati di nudi longilinei, raffinati e perversi è stile sicuro e originale in grado di scoprire analogie grafiche e corrispondenze linguistiche con tutte le altre arti con le quali ha familiarizzato, dalla letteratura, al cinema, alla musica, alle arti figurative. Nelle sue “riduzioni” di grandi romanzi reinventa un climax estremamente pertinente con il senso dell’opera madre e quando la sua Valentina si imbatte nel mondo delle arti abbondano le citazioni,.da Manet, a Picasso a Kandinskj a Henry Moore: tutte occasioni per esperimenti di affinità e ibridazione fra arti diverse.

Fuori da tali arditezze anche il neo-liberty Milo Manara, nel suo “Il pittore e la modella”, ha ridisegnato a suo modo i capolavori dei maestri dell’arte rinascimentale e moderna.

Non è difficile prevedere che il fumetto resisterà a lungo e cambierà ancora, seguendo il flusso delle inarrestabili interrelazioni che sempre più strette e frequenti si consumano fra le arti e tutti quei fenomeni esteticamente rilevanti che ruotano attorno al loro indefinito territorio, dal cinema alla grafica pubblicitaria, al videogioco…...e noi ci staremo appresso.

domenica 17 aprile 2011

Storia e fantasy: un connubio possibile, auspicabile... ma non assoluto


Tratto da "Terre di confine"

Jaques Le Goff, noto studioso del medioevo, in un importante saggio (J. LE GOFF, Storia e Memoria, pp. 36-37) distingue, per così dire, i romanzi storici di contesto da quelli che, in un certo qual modo, si avvalgono di una piega secondaria degli avvenimenti. Cosa significa tutto questo? Cercherò di spiegarlo... Lo storico francese, appartenente alla scuola dei Les Annales, vede gli avvenimenti del passato non nell’ottica di una sequela di episodi bellici, ma come un complesso viluppo di fenomeni economici e sociali. Un romanzo di “contesto” avrà quindi il compito di ricostruire tutta questa serie di fenomeni proponendo al lettore una immagine realistica di una società del passato.
Una simile rappresentazione potrà, secondo Le Goff, portare anche a creare sviluppi storici inediti, purché coerenti con il substrato socio-economico evocato dallo scrittore. Per converso esistono invece romanzi storici che, pur rimanendo fedeli alle vicende passate, ne sfruttano i lati oscuri, le pieghe nascoste o incentrano la narrazione su personaggi secondari citati o addirittura non presenti nelle fonti a noi giunte. Le Goff, tuttavia, dà a questo tipo di romanzi un valore minore dal punto di vista didattico essendo egli stesso portato, come si diceva, a preferire il contesto agli avvenimenti tout court.
All’interno del genere fantasy, assai multiforme per definizione, alcuni scrittori si sono cimentati nella narrazione “storica”. In questi romanzi l’aspetto “fantastico” è legato a una marginale e spesso secondaria comparsa dell’elemento magico. È dunque possibile, mi chiedo, che anche queste opere possano avere una valenza didattica, come il romanzo storico? E possiamo applicare le categorie interpretative di Le Goff a questi romanzi? Sulla prima domanda, mi riservo di rispondere in seguito, mentre vorrei immediatamente affrontare il secondo quesito con esempi concreti. Inizierei la mia disamina citando due autori americani, Gemmell e H. Turtledove. Gemmell ci rappresenta, nel ciclo di Parmenion, la Grecia a cavallo tra il IV-III secolo a.C. in modo abbastanza fedele e sceglie di incentrare la narrazione sul misconosciuto generale macedone Parmenione di cui le fonti non c
i hanno lasciato molte informazioni.

Parmenione, dunque, diventa un esule spartano all’interno della vicenda gemmelliana, e verrà coinvolto in tutti i principali avvenimenti della storia greca: la vittoria tebana di Leuttra, l’ascesa di Filippo il Macedone, l’affermazione di Alessandro Magno. Particolarmente interessante appare l’interpretazione di quest’ultima figura, eroe combattuto tra istanze orientali e tradizione occidentale nella realtà e che è, invece, visto nell’opera di Gemmell come dominato da un’entità demoniaca. Credo, nonostante le doverose concessioni alla fantasia, che questi scritti possano essere considerati romanzi di contesto. Un contesto che, presentato con coerenza e dovizia di particolari, può non solo donare realismo all’intera vicenda, ma anche fungere da viatico per approfondire un particolare periodo storico. La curiosità spingerà, infatti, il lettore a documentarsi, a verificare con mano i particolari storici descritti dal romanziere. E qui veniamo all’aspetto “didattico” che, a mio parere, può e, perché no, deve essere perseguito dall’autore. Per Turtledove il discorso appare più complesso: applicherei, infatti, la definizione di storia di contesto per il suo “Ciclo della Legione”, interessante e inedito esperimento di connubio tra Romani di età repubblicana e Bizantini (alias Videssiani). La stessa cosa farei, più generalmente, per i romanzi legati al mondo di Videssos, dove si ripercorrono quasi pedissequamente vicende e situazioni politiche legate al mondo bizantino. Il “Ciclo dell’Oscurità”, invece, pur ricalcando in molte delle sue vicende la storia della Seconda Guerra Mondiale non può certamente essere considerato “storia di contesto”, né può avere quel valore didattico di cui si accennava in precedenza.

Le altre opere di Turtledove, mi riferisco alle ucronie pubblicate e non pubblicate in Italia, mi permettono di parlare di questo inedito e interessante filone a cavallo tra fantasy e fantascienza. Possono, dunque, le opere ucroniche essere considerate “storie di contesto”? In un certo senso sì, ma nello stesso tempo sarei assai restio ad attribuire a queste opere una qualsivoglia valenza didattica. Il fatto stesso di proiettare il contesto nel futuro o nel presente, permette allo scrittore troppe libertà, troppe interpretazioni arbitrarie di quel substrato politico sociale appartenente al passato a cui si è ispirato. Infine, cosa più importante, l’ucronia parte da un presupposto inaccettabile dal punto di vista storico: non si può, infatti, enfatizzare eccessivamente l’importanza di un solo evento. Cosa sarebbe successo se i Francesi non avessero perso a Waterloo? Con ogni probabilità avrebbero soltanto rinviato l’inevitabile sconfitta, essendo l’esercito francese assai provato dopo la catastrofe russa. Insomma, difficilmente nella storia recente e passata si possono identificare episodi davvero risolutivi per lo svolgimento generale degli avvenimenti, né possiamo azzardare interpretazioni o prognosi troppo ardite a riguardo. Un antico adagio, mai venuto meno, afferma, infatti, che la storianon si fa con i se e i ma.

STEFANO BACCOLINI

mercoledì 13 aprile 2011

A destra e a manga

di Laura Grasso

Appena dieci anni fa a pronunciare il termine “Manga” in una libreria, un’edicola o anche in una fumetteria, si rischiava (nella migliore delle ipostesi) di venir corretti col termine “Magna”. Oggi, anche chi non è addetto ai lavori conosce, o ha sentito pronunciare, questa parola. I fumetti giapponesi sono stati sdoganati in tutt’e tre gli ambienti citati, e non meraviglia trovare nella collana de La Repubblica “I Classici del fumetto” anche il nome Otomo Katsushiro.

L’invasione è stata graduale ma non indolore. Come molti ricorderanno l’avanguardia ha iniziato l’attacco dai teleschermi italiani attorno agli anni ’70, portandosi dietro una serie di polemiche che, ai tempi, giunsero persino in parlamento (stiamo parlando di un periodo in cui, solitamente, in parlamento si parlava solo di questioni serie…).

L’animazione televisiva giapponese è, spesso, lo specchio impoverito (o anche arricchito) di una precedente versione cartacea. Il manga, nella propria madrepatria, non è ritenuto per niente una lettura infantile, così come gli anime non vengono considerati un prodotto fruibile unicamente dai bambini. Il merito più grande, che ha reso commercialmente vincente in Giappone il settore dei fumetti è stato anche quello di distinguere i target e differenziare l’offerta. Esistono gli shonen-manga (fumetti per ragazzi), come gli shoujo-manga (per ragazze, ma anche per uomini, donne e bambini solo per citare le fasce d’età più marcate), in una libreria giapponese si trovano riviste che entrano sempre più nello specifico orientandosi verso il gusto di impiegati, impiegate, casalinghe, e così via, per sconfinare anche nei vari generi (horror, azione, commedia, etc.). Non si finirebbe più di elencare.

Ma non si tratta solo di target. Ciò che distingue il manga dal fumetto europeo e dal comic è soprattutto lo stile, sia grafico che narrativo di questo medium, che risulta completamente diverso rispetto ai cugini occidentali: lo stravolgimento dei canoni anatomici, l’irregolarità delle vignette (quando non la loro totale assenza), la veloce fruibilità di lettura ed anche lo stile del racconto. Nel disegno spesso il realismo si piega alle esigenze del mangaka, e altrettanto fa il tempo cronologico che si dilata e restringe a piacimento.

Atteggiamento proprio di una cultura figlia di altra tradizione e filosofia, ma soprattutto schiava di esigenze commerciali e produttive.

Il Giappone è il Paese dei compromessi, dove si è buddisti, shintoisti e un po’ cattolici (ma solo a Natale). Così, si trova il manga prodotto unicamente allo scopo di vendere il giocattolo del momento, ed il manga come forma d’Arte, costruito vignetta per vignetta accentuando la lentezza della storia per prolungare il godimento di un disegno minuzioso e dettagliato, o risolto nella bellezza di un unico tratto di pennello, pulito e deciso. Disegno realistico o super deformato, con tutto quello che ci sta in mezzo.

I nipponici, hanno approcci assai più disinvolti con temi quali: morte, sessualità o religione, e di conseguenza trattano questi argomenti in modo libero, scontrandosi perciò, con la sensibilità del mondo occidentale.

[Per citare una polemica abbastanza recente, ricordo l’attacco allarmistico della psicologa Vera Slepoj alla serie animata “Petali di stelle per Sailor Moon” (Bishojo Senshi Sailor Moon – Sailor Stars) accusata di “deviare” l’orientamento sessuale dei giovani telespettatori!]

C’è la loro ideologia basata sullo spirito di sacrificio, sulla devozione, sul fallimento come massima vergogna, sull’immolazione dell’individualità a favore della collettività, che risulta inconcepibile ad una cultura individualista e capitalista come la nostra. E c’è la meditazione zen, la ricerca della perfezione, il binomio bellezza-tristezza, l’amicizia come più alto valore, la lotta contro se stessi per migliorarsi.

Espressione di questo popolo, dapprima isolato per secoli, conquistato, atomizzato, obbligato ad accettare usi e costumi che non gli appartenevano, contaminato dal capitalismo che si è messo in corsa per raggiungere e superare (nel bene e nel male) gli stranieri. Tutto questo e niente di questo può essere un manga.


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